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MICROBO. Un racconto infinitamente piccolo

Aggiornamento: 12 apr 2023

“Ma Sei il mio microbo!” esclamò suo padre. E sorrise stringendolo a sé, con il cuore che grondava amore. Perché era il più piccolo di casa. E il più basso. E anche il più minuto. Era più magro dei fratelli e persino delle sorelle, che avevano preso dalla mamma, ancora snella dopo cinque gravidanze. Fatto sta che da quel giorno, tutti in famiglia lo chiamarono così: microbo, microbello, microbino, microbuccio… Vezzeggiativi felicemente adottati dagli zii, nonni e parenti limitrofi.

Gli amici d’infanzia, perfidi come tutti i bambini, aggiunsero microbrutto, microbaccio e microbleah. E i compagni di liceo - very cool people - crearono mycro e micry.

All’Università invece, il suo nickname sparì di colpo, cancellato dai superlativi voti agli esami, che nessuno dei compagni di corso riusciva a eguagliare. Perché era sì minuto, ma anche intelligente e molto determinato. In famiglia però, microbo era sempre microbo. Persino il giorno della Laurea. Eppure le sue richieste di smetterla erano accorate, perché ormai era cresciuto. E aveva bisogno di sentire che anche loro lo vedevano così. D’accordo, era sempre magro, ma non era più il più piccolo.

Purtroppo, in casa, microbo restò ancora microbo.

Così un giorno, deciso a non sentirsi più sminuire, spiccò il volo e lasciò il nido. E non fece più avere notizie. Come una crisalide che diventa farfalla e abbandona per sempre il bozzolo. In breve tempo, forte dei suoi voti eccellenti, della sua intelligenza e della forte determinazione, trovò lavoro, la stima dei colleghi e la fiducia in sé.

Molti anni dopo, la famiglia era ancora offesa per quella che riteneva una fuga da casa, non la capiva: “Solo perché lo chiamavamo microbo!”, “Come può un soprannome fare del male?!”, “Il nostro microbo è proprio esagerato. Ingrato ed esagerato!”. Lui semplicemente lavorava ed era in pace con sé.

Finché un giorno, venne al mondo una creatura molto piccola, che mise in ginocchio infinite creature che si sentivano molto grandi. E gli ospedali si riempirono di uomini e donne che soffrivano, profondamente, isolati dalla famiglia e dagli amici. Erano circondati solo da medici e infermieri, col viso nascosto da una mascherina e il corpo rinchiuso in impenetrabili scafandri che impedivano anche una stretta di mano, una carezza, una pacca sulla spalla. Si parlavano solo con gli occhi. Era uno stato di solitudine estrema, minacciosamente contagioso.

Uno degli uomini che si ammalò era suo padre. Aveva la febbre alta e faticava a respirare e continuò così per molti giorni. Finché in ospedale arrivò un medico nuovo, non molto alto ma robusto. Aveva in mano una siringa che conteneva un medicamento colorato. Un colore azzurro che suo padre non aveva mai visto prima. Il medico gli iniettò il colore la mattina, il pomeriggio e la sera, per due giorni.

Il terzo giorno, suo padre era sfebbrato. Il quarto giorno riprese a respirare da solo. Il quinto giorno lasciò la terapia intensiva e si trovò in un reparto d’ospedale. Il pomeriggio seguente, ricevette la visita del medico che gli aveva iniettato il colore. Non aveva più lo scafandro, ma la mascherina copriva ancora il suo viso. Lo riconobbe dal corpo piccolo ma robusto e dal medicamento azzurro che teneva in una fiala.

“Come stai papà?”

“Papà?” domandò l’uomo perplesso. Un’infermiera intervenne:

“Suo figlio è un grande. Ha scoperto lui la cura contro questo maledetto virus!” e indicò il medicamento di colore azzurro. Il medico si tolse la mascherina e accarezzò il viso di suo padre.

“Il mio microbo!” esclamò suo padre. E lo strinse a sé, con il cuore che grondava amore. Lui ricambiò l’abbraccio, poi dolcemente si staccò, sorrise e gli disse:

“Ora devo tornare in rianimazione. Vengo a trovarti più tardi papà.” e andò.

“Grazie, figlio mio” rispose con gli occhi colmi di lacrime. Poi prese il telefonino e mandò subito un messaggio a sua moglie:

“Il nostro microbo ha sconfitto il virus!”

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